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LA FANCIULLO CHART DI PIGGEI! (part 1)

Aggiornamento: 14 giu 2019

C'è stato un tempo in cui il computer non era tecnologia diffusa a livello domestica e internet era usato solo per trovare le immagini di donne avvenenti (quelle di uomini avvenenti non erano ancora state inventate). All'epoca gli artisti erano soliti raggruppare le loro canzoni in "album", i quali venivano poi diffusi materialmente per mezzo dei compact disc grazie a una serie di attori economici che, nel loro complesso, formavano un mondo ormai estinto: l'industria discografica. La lista che segue è figlia di quel periodo remoto, e fotografa i miei album preferiti da quando ero un bimbetto di 7 anni, fino a quando divenni un bimbetto di 19. L'ordine con cui sono elencati simula un'ipotetica scala di preferenza incrociando 2 criteri: il gusto personale (quanto mi piacevano i suddetti dischi) e l'emotività (quanto sono legato affettivamente a essi). Alcuni di questi album – quasi tutti in verità – mi piacciono ancora; alcuni molto di più, alcuni di meno. In ogni caso, sono grato a tutti i musicisti e professionisti che li hanno composti, suonati e prodotti, perché la loro musica mi ha educato e sostenuto, come una testarda amica invisibile.



Da fanciullo, prima che l'adolescenza di mio fratello maggiore portasse nel nostro stereo un sacco di rock band, i miei ascolti rimanevano ancorati alla musica leggera italiana, per il tramite di genitori e parenti. I miei primi ricordi musicali sono dunque costellati di Roxy Bar, Zuccheri Fornaciari, Augusti Daolii e rotonde sul mare (che io mi figuravo come delle specie di scatolette di tonno giganti). In questo panorama si innestò senza troppi problemi l'album d'esordio degli 883, la prima musicassetta a essere mia, in senso letterale. La title track porta con sé un ritornello che sarebbe illegale in diversi Paesi, e gli arrangiamenti sono probabilmente i più cafoni mai realizzati, ma, nel complesso, continuo ad ascoltare con un certo trasporto quelle canzoni. Prima di diventare un uomo che prova nostalgia anche per quello che ha mangiato a colazione, Pezzali era capace di descrivere la provincia e il provincialismo italiano con lucidità, rabbia e una buona dose di ironia, nonostante la natura squisitamente commerciale e danzereccia dell'operazione. Non mi stupirei se in un universo parallelo Max fosse un punkabbestia i cui lavori sono prodotti da Rick Rubin. Nello specifico, S'inkazza (Questa casa non è un albergo) rimane insuperata.



Quando usci Voodoo Lounge avevo 9 anni e lo accolsi come un evento epocale. A quei tempi il rock era assai più giovine; abbastanza perlomeno da far sembrare una band in attività da 30 anni incredibilmente anacronistica, un po' come lo sarebbe vedere qualche animale estinto da milioni di anni scorrazzare beatamente per le nostre strade. Per me i Rolling Stones erano infatti dei dinosauri che riportavano in vita una sorta di suono primordiale e selvaggio; ad aumentare questa sensazione concorrevano la sinuosità della figura ritratta in copertina e il titolo, contenente più "o" di quante pensavo potessero esistere. A pensarci adesso tutto ciò fa sorridere: le Pietre Rotolanti sono andati avanti a rotolare per altri vent'anni, e, attualmente, è più facile sentir parlare di un gruppo pluridecennale che di uno emergente (che ha poi magari 10 anni di gavetta alle spalle). Sia come sia, Voodo Launge è un ottimo disco; niente che possa far cambiare idea a chi non sopporta il rock blues, ma rappresenta un lavoro più che pregevole per gli amanti del genere e degli Stones, che confezionarono un insieme di canzoni accattivanti, ben arrangiate e anche abbastanza ruvide. Soprattutto, desta stupore l'interpretazione vocale di Jagger, ammaliante e aggressiva, veramente degna di plauso: solitamente i cantanti non invecchiano bene.



Ci troviamo di fronte a uno dei millemila "best of" degli Aerosmith, contenente le loro maggiori hit pubblicate tra la fine degli anni '80 e l'inizio del decennio successivo, e che, come tale, presenta un susseguirsi ininterrotto di inni da stadio hard rock in salsa pop. Niente di trascendentale dunque, ma da bambino tutto questo concorse largamente a rappresentare la mia idea di r'n'r, assieme ai cartoni animati di Alvin Superstar. Inoltre, l'album conteneva Dude (Looks like a lady), il pezzo su cui ballava, travestito da donna e senza inibizione alcuna, Robin Williams in Mrs. Doubtfire, uno dei film più segnanti per i bimbi della mia generazione.



Ho divorato per tutta l'infanzia i Greatest Hits I e II dei Queen, custoditi in una versione double CD la cui copertina dorata (!) presentava uno dei loghi più belli che avessi mai visto. Con quella voce potente e vibrante Freddie Mercury era in tutto e per tutto il Re che si vedeva salire sul palco con la corona e il mantello di ermellino. Certo, quando ne parlavano, gli adulti non riuscivano a celare un tono pietistico misto a imbarazzo che non decifravo: non ero ancora pienamente consapevole di cosa fosse l'omofobia. Ciò mi lasciava perplesso, ma non intaccava in alcun modo la sacralità della figura. E fu cosi che infatti accolsi a 10 anni Made in Heaven: come una sorta di reliquia sacra che aveva riportato magicamente tra noi quella voce.



A mio avviso, la differenza tra il pop italiano e quello degli artisti internazionali è ben esemplificata da quest'album. Un lavoro indubbiamente orecchiabile, ma mai banale, dove la voce della compianta Dolores O'Riordan, è un valore aggiunto, non un elemento assoluto capace di eclissare arrangiamenti e parti strumentali. Basso, chitarra, e batteria formano infatti un tappeto musicale delicato, semplice, ma efficace, che ha una propria autonomia rispetto al cantato, e che raggiunge lo scopo senza mai accarezzare neanche lontanamente l'idea di dispiegare virtuosismi o chissà quali sperimentazioni. Ne è prova il pezzo più celebre della tracklist, Zombie, una canzone che in mano ad altri musicisti sarebbe stata un facile pretesto per sfruttare la moda grunge facendo sfoggio di chitarroni registrati a mille miglia di distanza (giusto per dare un tocco di colore), e rabbia di maniera. Invece, tutto in quel pezzo – dalla rullata iniziale, al giro di basso, ai brevi interventi di chitarra solista – è degno di nota e funziona assieme (e non "grazie a") all'interpretazione vocale e al testo. Una lezione che la musica leggera italiana stenta a imparare.


15) U2POP


Ho conosciuto gli U2 con POP, e ciò fece sì che identificassi totalmente la band con quel disco. Rimasi dunque estremamente deluso quando scoprii che quel favoloso mix di musica elettronica e pop rock non era stato altro che una breve parentesi nella loro carriera. Parentesi peraltro deplorata da critica, fan e, in ultima analisi, da tutto il mondo escluso me. Personalmente non ho mai amato la musica elettronica; quando ero adolescente essa mi appariva come la quintessenza del conformismo sociale, un mondo fatto di discoteche, ville con piscina, politiche dinastiche, consumismo compulsivo, asservimento delle coscienze e demoni biblici. Si potrebbe quindi ritenere che POP fosse la più grande eccezione che potesse confermare la mia ortodossia rock, ma non lo penso. Nonostante l'elemento elettro-dance dell'album sia infatti assolutamente preponderante (soprattutto nelle prime tracce), ritengo che esso abbia permesso alla band di liberare un'inedita aggressività sonora, soprattutto sotto il profilo chitarristico. Perché, diciamocelo, grandi schitarrate The Edge non le ha mai fatte.



Nel passaggio dalla fanciullezza all'adolescenza gli Iron Maiden rappresentavano un'Istituzione, non meno del Senato della Repubblica; anzi, probabilmente di più, visto che di quest'ultimo non sapevo nulla. Fu per questo che quando la mia insegnante di pianoforte mi disse di non conoscerli iniziai a dubitare del fatto che fosse realmente una musicista. In Killers lo stile della band è già praticamente definito nelle sue linee più generali, ma quello che lo rende a mio avviso qualitativamente migliore rispetto ad altri loro lavori che pure ho amato, è un'urgenza espressiva di cui la voce di Paul Di'Anno è un tassello fondamentale. Ciò detto, per me gli Iron Maiden "sono" Paul Di'Anno più di quanto siano Bruce Dickinson. E dopo anni rivendico questa convinzione con orgoglio, perché le dichiarazioni di Dickinson sul punk me lo hanno anche fatto rimanere tosto sugli zibidei.



Il boom del grunge dei primi anni 90 aveva definitivamente sdoganato l'underground al grande pubblico. A metà della decade ne beneficiò largamente l'hardcore punk melodico, che avrebbe imperversato negli anni a venire fino a regalarci quella chicchina di Avril Lavigne (grazie mille ragazzi). Alcune di queste band finirono subito tra le mie grazie: NOFX, Green Day, Rancid e, soprattutto, gli Offspring. Molti dei miei coetanei li conobbero con il mediocre Americana, che aveva il deplorevole primato di contenere una delle canzoni più urticanti della storia; non bastasse, vi figurava anche un plagio di quella che in assoluto è la canzone più urticante della storia: Ob-La-Di, Ob-La-Da. Il sottoscritto invece vantava con orgoglio una militanza nel partito dei fan risalente a 4 anni prima, forgiata dall'ascolto dell'ottimo Ixnay on the hombre, e dell'ancora migliore Smash. La bontà delle composizioni era certificata dal fatto che i vari "uoooh-ooooh" cantati ogni 3 secondi da Dexter Holland sono abbondantemente sopportabili.

Breve storia triste: possedevo anche una maglietta raffigurante la copertina dell'album che portavo con indicibile gioia, nonostante già dopo il primo lavaggio avesse dato segni di cedimento strutturale. Il mio amore per essa era tale, che mi ci vollero 10 anni per accettare questo fatto e smettessi di girare con quello che stava diventando solo un filo di cotone nero scolorito.

Breve storia triste (reprise): il mio primo gatto fu chiamato Dexter in onore al cantante del gruppo. Purtroppo mori dopo appena 6 mesi di vita. Era molto simpatico: gli lanciavi le ciabatte e lui te le riportava. Non sempre, qualche volta.



Prima di ascoltare quello che considero il capolavoro della band – il loro primo, omonimo album – conobbi i R.A.T.M. con Evil Empire. Mio fratello mi stava tartassando da tempo per convincermi a dare una chance a questi poveri ragazzi losangelini, ma io non ne volevo proprio sapere: all'epoca, il crossover tra rock/metal e rap non era ancora stato pienamente sdoganato, e l'idea che qualcuno mi parlocchiasse frasi in rima su una base rock mi sembrava veramente bislacca. L'occasione per redimermi mi fu offerta da un amico, che mi portò una music cassette del summenzionato Evil Empire dalle Filippine (non è una storia lunga, ma nemmeno tanto bella, per cui non la racconto). Battezzai l'album il 1º giorno del primo anno di liceo, durante la corsa dell'autobus che mi portò a conoscere la mia nuova scuola. Fu un bel modo per esorcizzare la tensione, visto che Zack de la Rocha e compagni parevano imbufaliti come un branco di scimpanzé.



Con i Metallica ho sempre avuto un rapporto di amore/noia: una passione smodata per il sound e i giri delle chitarre ritmiche, per gli arpeggi e gli assoli più melodici, ma, a ogni ascolto, una decrescente capacità di tollerare la loro sezione ritmica. Morale: non sono mai riuscito ad arrivare in fondo a un loro album con un solo ascolto, con l'unica – recentissima – eccezione dell'ottimo Hardwired... to self-destruct. Ciononostante, tutte le volte che ho suonato per più di 10 minuti una chitarra elettrica con un distorsore attaccato, non ho potuto fare a meno di emularne lo stile con miliardi di riff estemporanei. Quando avevo 18 anni uscì St. Anger, e ciò bastò a farlo diventare il "mio" album dei Metallica. È un lavoro che ha diviso i fan e i critici, oscillanti, gli uni e gli altri, tra entusiasmo messianico e delusione cocente. A giudicare dalla scaletta che fecero al concerto di Padova in cui li vidi, mi parve che nemmeno la band fosse troppo convinta del risultato, visto che eseguì non più di 3 brani del disco in quella che era una data del suo tour promozionale. Personalmente giudico St. Anger un buon disco, che riuscì a riproporre le radici della band senza fossilizzarsi troppo sugli stilemi del thrash metal anni 80, e il cui unico vero difetto era, manco a dirlo, l'eccessivo minutaggio.



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