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LA FANCIULLO CHART DI PIGGEI! (part 2)

Non sai di che diavolo stiamo parlando? Leggi qui la prima parte!




Per tutta l'adolescenza ho ignorato i Black Sabbath. Conoscevo Paranoid, poiché era presente nella colonna sonora di Rock n' roll racing, uno dei miei videogiochi preferiti per SNES, e la cover di loro una gradevole ballata, It's allright, presente nell'album Live era 87-93 dei GNR. Mi era giunta voce che mangiassero i pipistrelli, e questo è quanto. Fu un medley tra 2 loro brani, Sabbra Cadabra e A national acrobat, eseguito dai Metallica a incuriosirmi; la bellissima copertina dell'album che conteneva originariamente queste 2 canzoni mi spinse definitivamente al suo acquisto.

Rimasi incredibilmente colpito dalla pesantezza di quel sound, certamente rétro, ma in cui era possibile ritrovare i prodromi di buona parte delle band che adoravo. Potevo così finalmente rispondere a uno dei grandi interrogativi esistenziali che avevano angustiato il mio giovane cuore: «Come si era passati dall'hard rock al metal?», perché se riuscivo a rilevare senza difficoltà le affinità tra i 2 generi, il nesso tra l'uno e l'altro mi era ancor oscuro. Certo, non fu tutto rose e fiori, perché dovetti confessare a me stesso una verità scomoda per qualsiasi chitarrista: preferivo i riff di Iommi a quelli di Page.




Era qualche anno che i Muse riempivano di falsetti gli stereo dei miei coetanei senza che la cosa destasse in me il minimo interesse. Ci fu un periodo, magari durato anche 2 o 3 settimane eh, ma in cui sembrava che i Muse fossero ovunque, finanche alle cene domenicali con le nonne e gli zii. Era tutto un «ma quanto è bravo il cantante», «ma quanto è bravo il cantante» e soprattutto «ma quanto è bravo il cantante». Sarà che ero già a conoscenza del fatto che esistessero cantanti bravi, non so, ma la cosa non mi colpiva. A farmi cambiare idea fu la canzone Plug-in baby, che mi portò a recuperare Origin of Symmetry dapprima, e poi Absolution e Showbiz.

Per qualche tempo fu vero amore, e mi convinsi che i Muse avessero realizzato l'antica profezia che annunciava l'avvento dei messia capaci di risolvere il conflitto tra le 2 anime del rock, tra immediatezza e tecnica. Con il loro amalgama di power pop, punk, prog e richiami classicheggianti sembrava proprio che i Muse avessero finalmente portato equilibrio nella Forza. Purtroppo, a ogni equilibrio succede una crisi, e il successivo Black holes and revelations ne era un segno evidente. Certo, mi dicevo, anche i 3 precedenti lavori avevano avuto delle cadute di tono, ma stavo solo illudendomi: Knights of Cydonia era imperdonabile.




Le chitarre in King for a day rappresentano a mio avviso il non plus ultra della chitarra rock, sia sotto il profilo compositivo che, soprattutto, esecutivo: un sound dirompente che riesce a emergere tanto nei brani più hard che in quelli dalle influenze r'n'b, dove riff e arpeggi sono minimali e nondimeno portanti.

Sui Faith no more i migliori cervelli della critica musicale si sono spremuti per quantificare il loro peso relativo nel dare forma ai vari tipi di crossover sorti nel rock anni Novanta. Quale che sia la risposta, trovo questo album una vera perla, e tanto mi basta e mi avanza.




Quando uscì, Toxicity piaceva a tutti quelli che conoscevo che avessero un'età compresa tra i 16 e i 21 anni. Tuttavia, pesava su di esso la convinzione che fosse un lavoro derivativo, eccessivamente indebitato con la formula brevettata dal grunge "strofa quieta e pulita + ritornello fracassone e distorto". Ho sempre trovato questa critica un po' debole, non tanto perché la band non proponesse l'arrangiamento suddetto, ma perché lo faceva in misura assai minore rispetto ad altri, Linkin Park e Limp Bizkit su tutti. Oltre a ciò, i SOAD integravano un insieme variopinto di elementi musicali, tra cui i frequenti echi mediorientali, che, mi pareva, li rendevano tutt'altro che poco originali. La voce di Serji Tankian poi, valeva da sola il costo del biglietto: lo reputo un caso più unico che raro di cantante in grado di decostruire il canto moderno senza naufragare in modi di usare la voce che hanno più affinità con l'interpretazione di un cabarettista o un imitatore, che con quella di un vocalist.




Ho provato per un bel po' a farmi piacere i Beatles, lo giuro, ma non c'ero riuscito. Avevo comprato la loro storica raccolta blu, incentrata sulla fase che precedeva lo scioglimento, ma, con l'eccezione di While my guitar gently weeps, non c'era niente che avevo trovato entusiasmante, e, soprattutto, niente che giustificasse l'alone di sacralità che circondava la band e le loro frangette. Cambiai idea, inaspettatamente, dopo che vidi Paul McCartney eseguire Drive my car sul palco del Live 8. Quella dannata canzone mi si appiccicò addosso più dell'odore di fritto in un ristorante di pesce; mi sembrò che dietro quei "pee-pee-uh-pee-pee-uh-yeah!" si manifestasse la summa di quanto di buono il pop potesse regalare.

Fu dunque consequenziale avere l'album che conteneva quella perla: Rubber soul, che si rivelò essere un disco magnifico. Se si esclude la pur importante eccezione del sitar presente in Norwegian Wood (This Bird Has Flown), è un album ancora privo delle sperimentazioni sonore e compositive che avrebbero caratterizzato i lavori successivi, ma che segna un sostanziale salto di qualità rispetto a quelli precedenti, dove, accanto ai vari capolavori beat che avevano reso celebre la band, si susseguivano cover e pezzi piuttosto anonimi, sebbene eseguiti e arrangiati ad arte. Lessi una recensione in cui Rubber soul veniva definito il beat all'"ennesima potenza", ed è un parere che condivido appieno. A pari merito con il cosiddetto White album, è il mio disco dei Beatles preferito.




A 13 anni comprai Adore degli Smashing Pumpkins – come si suol dire – a scatola chiusa, nel senso che avevo piena fiducia nel fatto che Billy e soci avessero in serbo per me una tracklist all'insegna del rock più duro e puro. Avevo infatti ben definito il ricordo dei loro videoclip passati, in cui si faceva un gran sfoggio di rabbia chitarristica, batteristica, canora e via dicendo. Rimasi profondamente deluso quando scoprii che la band aveva deciso di darci dentro con le ballate (che nel loro caso significa perlopiù un mix tra una ninna nanna e la musica dei carrion) e di giocherellare con influenze elettroniche.

A tutti però si concede una seconda possibilità, e la mia fu data loro con Mellon Collie and the Infinite sadness, un doppio album che adorai sin da subito, dove le chitarre certamente non mancano, ma neppure momenti più intimisti e acustici. È il disco che ha accompagnato i miei 16 anni e che mi ha permesso di dare loro un senso, rappresentando in musica la frustrazione e la malinconia di quel periodo. Qua e là c'è qualche piccolo riempitivo, è vero, ma la qualità delle altre composizioni è talmente alta da rendere simili inciampi più che perdonabili. A voler essere pignoli si può dire che il sound complessivo risulta tutto sommato poco "raffinato" e omogeneo, soprattutto se confrontato a un altro capolavoro della band, il precedente Siamese dream, ma ciò è dovuto con ragionevole certezza alla vastità del materiale registrato, che si aggira intorno al migliaio di canzoni.




Ho conosciuto i Nirvana a 9 anni circa, con gli album musicalmente più estremi, in un senso e nell'altro. Mi riferisco a MTV unplugged in NY, e a In utero, che può essere definito per molti versi più grezzo e spigoloso del loro album di debutto, Bleach. Se a livello di gusto prediligevo l'unplugged, In utero suscitava però certamente maggiore fascino, e ricordo di averlo utilizzato diverse volte come musica di sottofondo nei pomeriggi che passavo a disegnare sdraiato sul pavimento di camera mia.

Trovavo conturbante l'artwork del disco; le foto presenti nel booklet e le immagini che lo decoravano mi proiettavano in un mondo ambivalente, rassicurante per i colori caldi adoperati, ma allo stesso tempo angoscioso per gli oggetti che vi erano raffigurati: organi interni, feti e parti di manichini. Le foto rappresentavano una band introversa ed esplosiva al medesimo tempo; tra tutti, il mio scatto preferito era quello in cui il viso di Cobain compare in primo piano; i capelli, lunghi e fucsia, gli coprono la faccia, e con un dito abbassa la palpebra dell'occhio sinistro.




Diversi studi hanno dimostrato che il nostro cervello ricostruisce con piglio creativo i ricordi. Sono dunque giunto a conclusione che sia quantomeno improbabile quanto mi suggerisce la mia memoria, cioè di aver pronunciato per la prima volta la parola "funk" a 12 anni, durante l'ascolto di Blood Sugar Sex Magik, quando esclamai – per l'appunto – «Questo è funk!». Sia come sia, una simile espressione di entusiasta stupore ben descrive questo lavoro, che è praticamente il groove fatto album; una miscela di hard rock, blues, rap e funk suonata con approccio punk. Degna di nota, se non di ammirazione assoluta, la chitarra di Frusciante, capace di riproporre le radici old school del r'n'r, da Hendrix in poi, senza risultare mai revivalistica.

Da ragazzino adoravo che il titolo fosse composto da quattro lettere, stabilendo così una sorta di mistica simmetria con il nome della band, e mi perdevo per ore nelle foto del gruppo: uno sfoggio di tatuaggi, muscoli ed espressioni beffarde che mi sembrava del tutto folle (vogliamo parlare degli elefantini colorati tatuati sul bicipite sinistro di Flea?!?). Per me Blood sugar sex magik era questo: la possibilità di ammaestrare la follia.



2) Nirvana – Nevermind


In parole povere? L'album che mi ha fatto decidere di iniziare a suonare la chitarra.









1) Guns n' Roses – Appetite for destruction


Appetite for destruction è stato invece il disco che mi ha fatto amare definitivamente il suono della chitarra elettrica e, più in generale, il rock, sia dal punto di vista musicale che estetico; per il me bambino di 25 anni fa era impossibile non rimanere affascinato dallo stile decadente e arrogante ostentato dai membri della band (e di Slash in particolare).

Sui GNR fu detto e scritto di tutto, anche perché furono i primi a far sì che questo accadesse. In buona sostanza le critiche non colpivano niente per cui non fossero stati accusati qualche altro miliardo di rock band: di loro si diceva che avessero comportamenti violenti, che oggettificassero le donne mostrando un machismo esasperato e omofobo, e che abusassero di droghe. Al di là delle convinzioni che ciascuno può avere su questi temi, e pur tenendo conto di alcune contraddizioni, ritengo abbastanza pacifico che nel complesso queste reprimende avessero decisamente ragione. Personalmente però, non scalfiscono più di tanto l'idea che ho del gruppo e della loro musica. Sarà perché mi sembra che certe sparate o alcuni atteggiamenti, in specie di Axl Rose, fossero più da compatire che da condannare, ma anche perché generalmente non pretendo che l'artista metta in mostra niente di più di quello che ha dentro, bello o brutto che sia. Se quello che ne viene fuori ci spaventa, è perché non abbiamo noi, la società civile e le Istituzioni, la capacità e la volontà di metabolizzare quei messaggi, di collocarli in una prospettiva che non nuoccia, di opporvi un contenuto alternativo che risulti più convincente.

Uno dei risultati di tutta questa mole di discorsi mi pare sia stato quello di mettere in secondo piano l'aspetto propriamente musicale, se non limitatamente alle intuizioni melodiche degli assoli di Slash e all'estensione vocale di Rose. Sotto questo profilo mi sembra importante evidenziare due punti. Il primo è la cura con cui questo disco è stato scritto ed eseguito: ogni canzone nasconde innumerevoli finezze, che emergono anche dopo un ascolto pluridecennale. Il secondo, in parte collegato al primo se si vuole, è la bellezza della sezione ritmica. Pur rimanendo nei canoni dell'hard rock, Duff McKagan e Steven Adler formano una base incredibile, per sound e compattezza: è illuminante a tal proposito ascoltare Anything Goes, uno dei pezzi per così dire "minori" dell'album.



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